Le Strategie

Affrontare quei bisogni trasversali delle persone svantaggiate e/o con malattie rare collegialmente, analizzandole attentamente, promuovendo azioni specifiche di “sistema” capaci di soddisfarli, perché trasferibili.

 

Il processo di Empowerment

La conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni personali sia in quello della vita politica e sociale.

Editoriale. Il significato dell’empowerment
L’empowerment è un concetto difficile da recepire nella sua radicalità ed essenzialità. È facile intenderlo nei modi che ci fanno più comodo, cioè in modi superficiali che non implichino un profondo riesame e una radicale messa in discussione degli atteggiamenti professionali più intuitivi e ormai scontati, ancorché purtroppo spesso inefficaci.
Ma in primo luogo va capito che cosa l’empowerment non è.
L’empowerment non è un’operazione tecnica di installazione di maggior potere nelle persone (utenti o familiari).

Non è una raffinatissima manipolazione dei professionisti alla fine della quale delle sfortunate persone in difficoltà diventano «più potenti». Non è, ad esempio, un training di addestramento all’esercizio di nuove abilità, in virtù delle quali poi le persone che se ne appropriano diventano maggiormente in grado di far valere i loro interessi nella loro vita. Se in un centro socio-educativo io insegno a una persona disabile delle abilità di comunicazione o di assertività o a usare il denaro, ecc., questo mio intervento non è propriamente di empowerment, anche se può essere utile. È un intervento del tutto tradizionale, che si è sempre fatto; dire che un semplice addestramento è empowerment vorrebbe dire giocare con le parole, chiamare con parole nuove, e oltretutto inglesi, vecchie cose (tipiche della più ingenua concezione tradizionale del welfare state).
Non è empowerment neppure l’atteggiamento contrario, caro invece ai liberisti: quello di lasciar fare, presumere che le persone in difficoltà abbiano risorse e che, ottimisticamente, ce la possano fare da sole. Ovviamente, quando una persona ce la fa da sola, questo «cavarsela» è senz’altro segno di un qualche suo potere. Limitare l’assistenzialismo e la passivizzazione è certo una buona cosa. Bisogna avere molta fortuna, però, affinché il nostro azzardo di rimanere passivi e indifferenti rispetto agli sforzi delle persone bisognose possa mostrare qualche effetto «empowerizzante». Perché vi sono due seri problemi: primo, quello di capire che cosa succede alle persone che, lasciate sole, soccombono e non ce la fanno; secondo, quello di comprendere come un disinvolto osservare le persone che vanno a fondo possa essere ancora considerato un aiuto professionale e deontologicamente accettabile. Una manovra «vuota» e giocata tutta «in negativo» (un lasciar fare, un ritirarsi o, al limite, un «non fare nulla») può essere ancora intesa come un’azione professionale? A me sembra che di professionale abbia poco, mentre ci terrei ad avvertire subito che il vero empowerment è altamente professionale.
Il liberismo ha anche elaborato un’idea dell’empowerment più strumentale ancora: quella della libertà di scelta delle prestazioni tra erogatori in concorrenza, da parte dei cittadini consumatori. Spesso si dice empowerment per dire possibilità/capacità di scelta nel «supermercato delle prestazioni». Nel welfare la questione della scelta è divenuto un tema importante, ma l’empowerment sociale è un’altra cosa, molto più seria.
In positivo, empowerment vuol dire essere in grado, come operatori, di gestire i saperi specializzati in modo che questi non smorzino o non uccidano quelli degli altri; vuol dire mantenersi in stretta relazione con le persone che vivono dei problemi e riconoscere e rispettare il loro potere di parola e di azione; vuol dire cedere del proprio potere terapeutico a ragion veduta. Questo significa cedere potere non a prescindere e in maniera indiscriminata come una sorta di menefreghismo, ma sulla base di una solida speranza. Alla base vi deve essere una percezione di potenzialità nell’altro e nel sociale, la convinzione che l’esercizio effettivo di quel potere da parte delle persone produrrà in loro, come per miracolo, ancora maggiore potere e un rinnovato senso di fiducia in se stessi e negli altri. E sapendo anche che l’esercizio del potere di azione da parte degli interlocutori motivati restituirà un beneficio professionale e umano allo stesso operatore che ha innescato l’empowerment, il quale si avvarrà del contributo ideativo ed emotivo delle persone in relazione con lui. Nella tradizione del servizio sociale si è sempre fatto riferimento alla capacità dell’operatore di sollecitare risorse: l’empowerment ci dice che le risorse più produttive e più profonde (oltretutto anche meno costose) sono quelle «spirituali» che sono già presenti nelle persone motivate, che perciò sarebbe ora di smettere di chiamare «utenti».
Per agire nel senso di questo empowerment profondo e relazionale occorre ovviamente che l’operatore non ami le posizioni di potere preconcette; è necessario che la sua personalità sia libera da pulsioni di superiorità e di comando; sia abbastanza sgombra dal piacere nevrotico e malsano di imporre la propria volontà sulle persone ritenute più deboli. Sentirsi potenti piace a tutti, ma gli operatori sociali debbono essere così tranquilli con se se stessi da amare di sentirsi potenti solo quando vedono diventare un po’ più potenti e competenti le persone ufficialmente fragili con le quali interagiscono. Questa manovra si può fare solo «perdendo» potere decisionale diretto, per andare a guadagnare un potere condiviso, di caratura superiore. La manovra dell’empowerment si può fare solo presupponendo che vi siano competenze importanti anche al di là di quelle imparate studiando nei libri. Chiamiamo competenze esperienziali quelle apprese dalle esperienze di vita, comprese quelle esperienze che le persone fanno nelle loro terapie incontrando operatori aperti ad ascoltarle e valorizzarle. Un operatore che sappia agire in questo modo sa che cosa è l’empowerment e ne fa il proprio atteggiamento professionale profondo.

Fabio Folgheraiter
(Università Cattolica di Milano)